Il 2017 dell’architettura milanese si è concluso con importanti passi in avanti nello sviluppo del progetto Citylife. Tra ottobre e novembre è, infatti, stata finalmente occupata buona parte della Torre Isozaki da parte dei lavoratori di Allianz e a fine novembre è stato inaugurato lo Shopping District, appena in tempo per la corsa ai regali natalizi. Nei mesi precedenti i lavori sul parco avevano subito una decisa accelerata, così come la ristrutturazione delle facciate del Padiglione Tre. La volontà dei vertici di CityLife è stata quella di far percepire ai milanesi che l’area fosse viva, aperta, uno spazio fruibile e non più il cantiere che è stato per anni. E nel corso del 2018 sarà ancora più marcata questa percezione, visto l’ingresso di Assicurazioni Generali nella propria torre – il grattacielo “storto” di Zaha Hadid – con circa 3000 dipendenti, e la costruzione della terza torre, quella di Libeskind, che vedrà la sua conclusione, almeno nell’involucro esterno, a metà 2019.
In questo periodo si è quindi tornato molto a parlare di un progetto che è lungamente rimasto ai margini dello storytelling sulla rinascita milanese. Un progetto spesso considerato a sé stante, estraneo al processo di evoluzione del tessuto urbano che ha investito, e coinvolgerà ancora in futuro la città. Percezione curiosa poiché, dati alla mano, l’area coinvolta è pari a 366 mila mq di superficie, uno dei maggiori progetti di riqualificazione europea che ha cambiato lo skyline della città meneghina; le due torri già oggi edificate sono, infatti, visibili da ogni angolo, soprattutto il monolite kubrickiano di Arata Isozaki che è divenuto un landmark del tessuto urbano milanese. L’ex Fiera è, inoltre, un’area appena a ridosso del centro città, in una fascia urbana rivitalizzata grazie allo sviluppo di questo progetto, che è andato a riempire una porzione urbana irrisolta costituita prevalentemente da interconnessioni infrastrutturali; è stato creato un nuovo polo cittadino, una nuova centralità.
Nonostante stia lentamente mutando la considerazione da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’intervento di CityLife, credo si possano sintetizzare in quattro punti i motivi per cui ancora oggi il progetto risulti estraneo e sconosciuto a molti milanesi e perché sia su più fronti criticato (non solo dagli hater da tastiera). Ogni elemento di critica, legittimo e spesso con forti elementi di veridicità, può essere controbattuto o spiegato, ed è l’aspetto su cui vorrei ragionare e far ragionare.
Innanzitutto per la sua durata. “Lo finiranno mai?”
La gara internazionale per aggiudicarsi l’area da riqualificare è stata vinta nel 2004 da CityLife con il masterplan firmato dalle tre archistar Isozaki, Libeskind e Hadid; in quell’occasione il progetto, finanziato da un consorzio composto da Generali Properties S.p.A., Gruppo Ras, Progestim S.p.A. – Gruppo Fondiaria-SAI -, Lamaro Appalti S.p.A. e Grupo Lar ha vinto contro altri progetti di grande valore architettonico ed economico, tra cui si ricorda quello di Renzo Piano, classificatosi al secondo posto.
In seguito all’aggiudicazione della gara è stata costituita la società CityLife S.p.A., controllata dal Gruppo Generali e partecipata da Allianz.
Dal 2004 sono passati ben 14 anni e il progetto non è ancora completato, di mezzo c’è stata la crisi economica mondiale e, ad essa correlata, quella immobiliare. Questo avvenimento ha sicuramente di molto rallentato lo sviluppo del progetto, soprattutto nella realizzazione di tutte strutture residenziali previste conferendo, come effettivamente è stato per un lungo periodo, l’impressione che l’intero intervento fosse fermo alle “navi” di Zaha Hadid e di Daniel Libeskind. Alcune aree residenziali inizialmente previste sono ancora vuote, in progettazione, in evoluzione; e attendendo che si prenda una decisione sul loro futuro – alcune di queste potrebbero essere modificate in superfici terziarie – sono state rimpiazzate da servizi sportivi come il campo di pratica Golf su Piazza Giulio Cesare e i campi da tennis su Asse Domodossola; – il collegamento pedonale che collega Largo Domodossola a Piazza Tre Torri -; sport per pochi, da ricchi, non proprio infrastrutture sportive per la città.
Alle congiunture economiche sfavorevoli vanno aggiunti i problemi interni alla società CityLife, che ha portato all’uscita del gruppo Allianz dal progetto, passaggio questo che ha avuto pesanti ripercussioni temporali sul suo svolgimento e serie problematiche economiche e legali, che si sono riflesse a cascata sullo svolgimento dei lavori.
Il 2017 è stato l’anno per CityLife in cui “battere un colpo”, in cui esprimere forte e chiara la propria ripartenza, la propria importanza sul territorio. I tempi complessivi per portare a termine il progetto sono effettivamente molto lunghi, troppo lunghi, al netto di tutti i problemi di contorno e interni al progetto. In un paese in cui “ il non finito architettonico” e frutto di produzioni letterarie e di libri fotografici verrebbe quasi da dire che poteva andare peggio. Quello che colpisce, piuttosto, è l’evoluzione spesso molto radicale che i masterplan di opere urbanistiche così importanti hanno; è accaduto lo stesso nel progetto di Porta Nuova, e forse anche con modalità più gravi e “all’italiana”, legate a fallimenti societari e scandali, come per il buco di Piazza Gae Aulenti e “la stecca” di Ligresti nel quartiere Isola. Anche il progetto di CityLife è cambiato numerose volte, con un susseguirsi di “Convenzioni” siglate Con il comune che hanno visto ingrandire l’area di parco, diminuire le cubature residenziali ed eclissare il “Museo d’arte Contemporanea” di Libeskind. Il dinamismo di tali progetti è in larga parte inevitabile, poiché nell’arco dei 15-20 anni in cui vengono portati a termine la concatenazione di eventi, variazioni e stravolgimenti che gli attori coinvolti possono subire sono molteplici. Stiamo pur sempre parlando del rapporto tra società private che mirano esclusivamente al proprio interesse, e sono spesso volubili, ed enti Pubblici e politici, che in Italia non sono sinonimo di stabilità; tutto questo avviene si relaziona poi a logiche macroeconomiche e finanziarie internazionali.
In secondo luogo perché, a voler ben vedere, il progetto di CityLife è arrivato per “secondo”. “Gae Aulenti, comunque è più bella”.
Sì perché a furia di parlare di rinascita e di veder sorgere nuovi edifici in giro per la città i milanesi si sono abituati fin troppo bene alle novità. Tutto il complesso di Porta Nuova-Garibaldi è iniziato circa nello stesso periodo ma è stato sostanzialmente terminato nel 2015; ad esclusione del parco, la cui progettazione e realizzazione sta vedendo ora la conclusione, con tempi decisamente lunghi. Torre della Regione, Piazza Gae Aulenti, “Diamantone”, Bosco Verticale, tutti elementi iconografici della città edificati prima dei progetti sorti sull’ex Fiera; su di essi per molto tempo cittadinanza e le luci dell’opinione pubblica si sono concentrati. Una riqualificazione di 340 mq complessivi, poco meno rispetto a CityLife, che ha stravolto completamente un’area semicentrale della città. E poi l’eco dei premi del Bosco Verticale, miglior grattacielo al mondo, e dunque fotografato da ogni angolo. Del progetto Porta Nuova fanno parte anche tante architetture “secondarie” ma comunque molto importanti come la casa della memoria, l’Unicredit Pavillon, la nuova sede di Google, la Nuova Stecca degli Artigiani. Progetti firmati da grandi architetti come Pei, Boeri, Zucchi, De Lucchi, Piuarch… L’area di Porta Nuova si è presa tutti i riflettori integrandosi a pieno nella città, risaltando come necessità urbana primaria rispetto al freddo ancorarsi delle “navi” di CityLife e alla ingombrante presenza dei grattacieli isolati in mezzo al parco. La vulgata comune sull’utilità e la bellezza di Piazza Gae Aulenti, insomma, è un dato di fatto, un sentore condiviso già parte dell’immaginario che i milanesi hanno della propria città.
Ma è anche, e soprattutto, questione di abitudine al nuovo; nell’epoca in cui la propria presenza in un luogo è importante non solo per l’esperienza che si sta facendo di quello stesso luogo in quel determinato momento, ma anche per la ricaduta “social” che essa ha sui propri profili virtuali, tutti hanno dovuto farsi una foto con il Bosco Verticale di sfondo. Sta già accadendo lo stesso con le nuove architetture di CityLife. E da questo aspetto di condivisione virtuale il passaggio alla convinzione che sia “cool” un pomeriggio trascorso a passeggio nel parco sotto i grattacieli il passo è breve. Una nota a margine va poi sottolineata: la qualità architettonica di alcuni singoli progetti di CityLife. Bisogna considerare infatti che qui è presente l’intervento, nel complesso, più importante di Zaha Hadid in Italia. L’archistar più premiata e riconosciuta dei primi duemila ha regalato all’Italia altri progetti importanti come il Maxxi e la Stazione di Napoli Afragola, ma a CityLife ha potuto mettere a disposizione il suo genio su temi di progetto molto differenti tra loro: il masterplan urbanistico, le residenze, il grattacielo e il centro commerciale. Qualunque sia la considerazione estetica che ognuno ha delle singole opere – a mio avviso alcune di livello altissimo – da milanesi, bisogna sempre ricordarsi questa grande fortuna.
A questi temi si lega il terzo punto, la connessione urbanistica. “Ma come si arriva a CityLife?”
La pietra di paragone è sempre quella, Piazza Gae Aulenti e la riqualificazione dell’area di Garibaldi. In questo caso parliamo di un progetto che va a ricucire aree di città vicine ma storicamente disunite, dalla ferrovia, dall’abbandono e dalla presenza di grandi viali trafficati. Aree importanti, vivaci e vissute come Corso Como e il Quartiere Isola; aree in pieno sviluppo che hanno seguito l’evoluzione del progetto in corso mutando urbanisticamente e sociologicamente. Parliamo di zone giovani, con molti locali e del quartiere più berlinese di Milano, l’Isola gentrificata come i quartieri della capitale tedesca di Kreuzberg o Prenzlauer Berg.
Nella zona della Fiera manca tutto questo, manca fortemente la fusione urbanistica presente nel progetto Porta Nuova. Quella della Fiera è un’area che nasce e cresce per sua natura “staccata” dal resto della città, come una città nella città con un tessuto urbano diverso, unico. Questo elemento il progetto di CityLife se l’è portato dietro, non riuscendosi ad integrare a dovere – non ancora? – nel tessuto urbano; un errore dei progettisti forse, mantenere questa distanza tra ciò che è il progetto e tutto il resto. Una distanza ontologica, voluta, insita nel progetto: caratterizzata dall’area verde intorno ai grattacieli, colossi vetrati che si stagliano sull’altare delle reti viarie pedonali e ciclabili che hanno il loro fulcro in Piazza Tre Torri. Il verde che unisce tutto ma che in realtà tiene lontano dal contesto. E poi le navi, fuori scala con le case in stile primo ‘900 di Piazza Giulio Cesare; è possibile equipararle alle navi da crociera che solcano quotidianamente il canale della Giudecca a Venezia oscurando e sovrastando tutto il resto.
Da questo punto di vista forse solo il nuovo Shopping District funge da trade union con il contesto, con l’asse Galantino – da poco denominato Galleria Castelli Ferrieri – che unisce il centro del progetto, piazza Tre Torri, con le aree circostanti.
Anche in questo caso però è possibile osservare questi temi da un punto di vista differente, considerando alcuni elementi estremamente innovativi al progetto.
Uno dei punti di forza “nascosti” del progetto di CityLife è, a mio avviso, proprio il tema dell’accessibilità. La volontà progettuale è stata, infatti, quella di creare una grande porzione urbana esclusa dal traffico automobilistico privato, nonostante la presenza di numerosissime residenze e di ben tre grattacieli, che a pieno regime saranno occupati da circa 8000 lavoratori. Com’è stato possibile tutto ciò? Grazie ad un’attenta “progettazione nascosta” delle reti viarie e dei parcheggi sotto tutta la superficie dell’area e la tempestiva progettazione e apertura della nuova linea lilla della metropolitana. Insomma la vera meraviglia del progetto sta proprio sotto il progetto stesso, per lo meno a livello urbanistico. I servizi primari sono stati il primo elemento progettuale ad essere realizzato e il primo ad essere terminato, compresa la fermata della metropolitana proprio nel mezzo del progetto, aperta quando ancora Piazza Tre Torri era un cantiere. Il successo di quest’aspetto del progetto è certificato da un dato esemplificativo: nel giorno di massima affluenza del centro commerciale con circa 125.000 presenze, solo 4 mila persone hanno raggiunto l’area di CityLife in macchina. Un record positivo di cui il Comune dovrebbe farsi vanto continuamente assieme ai promotori del progetto.
A questo aspetto si lega un altro tema di critica classico proprio ad una delle componenti più importanti della riqualificazione: lo Shopping District. Da molte parti, infatti, questo progetto è stato paragonato al centro commerciale di Arese, il mastodontico inferno capitalistico alle porte di Milano, firmato da Michele De Lucchi. Dal punto di vista architettonico entrambi hanno ottimi spunti progettuali e riescono nel loro intento primario, ovvero rendere piacevole scorrervi del tempo. Ma dal punto di vista delle “modalità di fruizione” si posizionano ad estremi opposti, pur essendo apparentemente la stessa cosa. La modernità dello Shopping District di CityLife sta nel fatto di essere un nuovo polo commerciale urbano. Si posiziona quindi in competizione con Corso Vercelli, Corso Vittorio Emanuele o Corso Buenos Aires, ovvero con i luoghi predicati allo shopping di Milano. E’ un luogo da raggiungere a piedi nei weekend, in cui fare una passeggiata come spesso accade di fare per le vie del centro città. In questo risiede, a mio avviso, la riuscita di questo centro commerciale che già dal lessico “Shopping District” vuole darsi un tono, ma anche una dimensione urbana, di distretto appunto. Tutte queste considerazioni sono al netto dei discorsi condivisibilissimi sulla qualità media dei negozi e sul costo eccessivo di tutti i locali della Food Court.
Un’altra questione importante, sempre in tema di accessibilità, è legata al parco, che effettivamente crea un’isola intorno al centro pulsante del progetto. Personalmente ritengo questa una pecca del masterplan, bisogna tuttavia mettersi d’accordo su un punto: il valore che diamo al verde. Nei classici sondaggi telematici d’opinione la progettazione di aree verdi è di solito nelle prime posizioni assieme alla necessità di maggiore sicurezza e aria più pulita. Concettualmente quindi questo progetto risponde ad una volontà comune e lo fa con il secondo parco urbano più grande della città. Se il parco verrà gestito con la stessa qualità e cura a cui è sottoposto ora, periodo in cui è in gestione a CityLife, sicuramente diventerà un punto di riferimento per le altre importanti aree che verranno riqualificate a Milano in futuro, in primis gli scali ferroviari, dove il tema del verde sembra predominante – come mostrano i progetti presentati fino ad ora, in primis quello di Boeri -.
Quarto ed ultimo punto, un sentore comune, un malumore condiviso, il target del progetto. “Ma cosa serve costruire case che si possono comprare solo i calciatori?”
Questo è il tema più complesso e caratteristico di tutto lo sviluppo urbanistico in atto a Milano nell’attuale periodo storico. Se è vero, infatti, che la città meneghina è fino ad ora stata l’unica in Italia a saper sfruttare a pieno i capitali privati nell’opera di riqualificazione della città è anche vero che il target da essi ricercato per rientrare dall’investimento è quello dei ceti più abbienti. Abitazioni di lusso, quindi, il cui valore di mercato al metro quadro è proibitivo per la stragrande maggioranza dei cittadini. Case per ricchi insomma, per chi può pagare a caro prezzo ampie vetrate, materiali di pregio e affaccio sui grattacieli. E poi strutture terziarie imponenti come le torri, e negozi affittati a prezzi carissimi. A voler ben vedere questo discorso vale anche per i grattacieli residenziali di Porta Nuova o per la Corte Verde di Cino Zucchi e, in generale, per tutta la riqualificazione di Garibaldi. Questa tematica non può essere riassunta in una critica alla singola opera architettonica, sia esso il Bosco Verticale o le Residenze di CityLife; è un modo di agire frutto di volontà politiche dei vent’anni passati e di un approccio culturale per cui Milano, a differenza di Amsterdam o delle capitali scandinave, non ha voluto investire sui grandi progetti di Social Housing, il cui valore architettonico e la propria forte presenza nelle città sono la cifra stilistica dell’architettura dei primi 2000 in gran parte d’Europa.
In questo senso CityLife non cerca in alcun modo di nascondersi; è un progetto rivolto al ceto benestante e ai calciatori, ma è la naturale conseguenza di un modo di operare che forse bisogna accettare nonostante le sue storture. Riqualificare parti di città con l’aiuto di capitali privati è l’unica modalità per far tornare in vita porzioni urbane inutilizzate. E’ una via di sviluppo urbano, condivisa in molte metropoli internazionali, al quale dovrebbe affiancarsi una buona amministrazione da parte dei governi cittadini, affinché gli oneri versati dai privati per aggiudicarsi i progetti e per l’edificazione di volumetrie così importanti, siano investiti su parti della città più complesse, come le periferie, e su opere veramente utili ai cittadini. In parte questo è stato fatto anche a CityLife dove ad aprile sarà terminato un asilo, successivamente una centrale della Polizia Locale e dove verranno ristrutturati completamente sia il Velodromo Vigorelli che il Padiglione Tre. Oltre a ciò sono rimesse a posto le piazze e le vie limitrofe all’area di progetto.
Al netto di quello che verrà realizzato e di come verranno spesi i soldi pubblici degli oneri di urbanizzazione bisogna considerare un elemento che differenzia Milano dalle best practices europee. Milano è una città in cui il numero di abitanti è da parecchi anni in lenta ma costante decrescita, è una città di dimensioni tutto sommato esigue, che ha la fortuna di non avere troppi quartiere ghetto-dormitorio distanti dal centro – come è per esempio a Roma -. Nella città lombarda, in definitiva, probabilmente non si è sentito il bisogno impellente di costruire nuove case per la città in espansione; Il Social Housing in stile olandese o scandinavo, pur estremamente apprezzabile dal punto di vista architettonico, di quartieri come il Borneo o Silodam di Amsteram non era in cima alle priorità politiche e sociali della città. La necessità primaria è stata quella di rilanciare Milano con una nuova dimensione, più europea. Il tentativo di tutti i progetti degli ultimi anni è stato quello di “rifarsi la faccia” e di riposizionarsi sul mercato internazionale, attirando capitali e grandi aziende, rendendo la città quello che è ora: una candidata credibile per le multinazionali in uscita dalla City post-Brexit o per le agenzie europee, come ha dimostrato la lotta all’ultimo voto per l’ottenimento di Ema, l’agenzia del farmaco, persa per un soffio.