Può sembrare strano ma “trasformazione”, “riutilizzo”, “rifunzionalizzazione” sono termini da sempre collegati alla disciplina architettonica. La pesantezza e la persistenza nel tempo che accompagnano l’idea, condivisa dai più, degli edifici e delle costruzioni non sono, in realtà, scissi da un’evoluzione temporale che spesso i manufatti architettonici possono avere. Basti pensare alle stratificazioni architettoniche visibili in molti edifici di Roma e ai cambi di funzione che alcuni di essi hanno avuto; non solo il riutilizzo dei materiali di costruzione, dunque, ma anche l’aggiunta di alcuni elementi per aggiornare le immobili pietre all’evoluzione di funzione e gusto estetico. In questo senso uno degli esempi più celebri di giustapposizione architettonica è stata l’aggiunta dei due campanili berniniani sul Pantheon, opera simbolica della grandezza dell’impero romano. L’importanza di tale edificio e il suo perdurare al fluire del tempo, al di là di funzioni e stili architettonici, è dimostrato proprio dall’eliminazione di questi due elementi appena un paio di secoli dopo la loro costruzione; evidentemente alcuni manufatti meritano un grado di rispetto superiore a ogni ragione umana e trascendente. Stessa sorte, ma ben più duratura per un altro edificio celebre nella storia dell’architettura: la Basilica Palladiana. L’opera, che lanciò definitivamente uno dei più grandi architetti del passato, consiste in un radicale intervento di stratificazione. Andrea Palladio, infatti, coprì la facciata gotica dell’esistente Palazzo della Ragione di Vicenza con delle logge rinascimentali caratterizzate dall’iterazione della serliana, elemento architettonico molto utilizzato nello stile architettonico quattro-cinquecentesco.
Oggi il tema della trasformazione è al primo posto di ogni ragionamento architettonico che riguarda le nostre città; lo è, tutavia, per una serie di ragioni, meno romantiche e decisamente più pratiche.
Innanzitutto c’è il tema dello spazio. Il nostro pianeta ha una superficie finita e le nostre città, per quanto si siano già quadruplicate di dimensioni nell’ultimo secolo, difficilmente potranno mangiarsi altro terreno. Diventa quindi prioritario modificare ciò che già è stato costruito per allungarne la sua vita funzionale il più possibile.
Bisogna poi considerare che l’opera di demolizione e smaltimento sono, spesso, molto più costose di quella di restauro e ristrutturazione. In una società in cui il denaro incentiva ogni azione quest’aspetto non è secondario ed sospinto da una motivazione tecnologica: le nuove metodolgie costruttive adottate dal Movimento Moderno, avanguardia architettonica, sviluppatasi negli anni ’30 del ‘900, rese possibili dallo sviluppo tecnologico in ambito edilizio e dall’utilizzo di nuovi materiali. In particolare il sistema costruttivo a telaio travi-pilastri-solai rende estremamente facile sostituire parti dell’involucro esterno mantenendo integra la struttura originale.
In ultimo vanno considerate le ragioni prestazionali e le scadenti performance energetiche che molti degli obsoleti edifici presenti nelle nostre città hanno; nella maggior parte dei casi non sono in linea con i canoni della bioedilizia, ormai ampiamente diffusi e sempre più spesso imposti dall’aggiornamento delle leggi in materia di costruzioni.
Questo è il quadro in cui prende valore un termine specifico, sempre più in primo piano, nel lessico architettonico: il “re-cladding”, disciplina che si può ormai considerare un vero e proprio ramo della progettazione, un meticcio tra design, edilizia e architettura che coinvolge non solo l’aspetto estetico ma anche quello prestazionale e impiantistico. Si parla, infatti, di re-cladding per gli interventi di sostituzione e rifacimento totale della facciata esistente, di over-cladding per la sovrapposizione alla facciata esistente di una nuova pelle più isolata, più o meno trasparente, più o meno ventilata e di re-fitting per la sostituzione parziale degli elementi non più performanti o aggiunta di componenti quali schermature solari e pannelli fotovoltaici. Questa tecnica è una specie di lifting architettonico capace di reinventare le facciare degli edifici esistenti per donare una seconda giovinezza ai palazzi delle nostre città, in termini di immagine e prestazioni. Sovente non si ha la consapevolezza di quello che avviene attorno a noi e di questo tipo di intervento progettuale poiché dietro le impalcature e i teloni bianchi da cantiere non si comprende a pieno la tipologia di trasformazione in atto, ma è quello che è successo e sta succedendo anche a molti importanti edifici milanesi.
Proprio a Milano, infatti, la felice compresenza di un patrimonio edilizio per terziario risalente agli anni ’50, ormai inadatto ai bisogni correnti, e il processo di riqualificazione di molti edifici della città si sono felicemente incontrati in questi ultimi anni sospinti e incentivati dagli interventi urbanistici in atto in zona Porta Nuova e Fiera. Il capostipite, in questo senso, è stata la riqualificazione delle Torri Garibaldi. Il progetto di ristrutturazione totale di facciate e interni, firmato dall’architetto Massimo Roj, è stato, infatti, avviato a inizio 2008. Le Torri, sono state munite di pannelli solari e materiali isolanti per le pareti, e sono state quindi rese autosufficienti a livello energetico; il design esterno originale caratterizzato dalla pietra arancione tenue di facciata è stato svecchiato con l’inserimento di un linguaggio hi-tech che si rifà ai grattacieli contemporanei e richiama il Renzo Piano di Torino e Londra.
Altri importanti edifici sono caratterizzati da interventi di recladding a Milano, tra questi, quelli più iconograficamente importanti e che stanno a cuore ai milanesi sono sicuramente l’ex sede della Tecnimont in via Monte Grappa 3 e il grattacielo Galfa.
Il primo è diventato la nuova sede di Amazon che ha deciso di cambiare radicalmente il linguaggio architettonico dell’involucro passando da un’insolita corazza in alluminio anodizzato e cristallo – impossibile non notarlo passando nella zona di Porta Nuova -, ad un classica facciata vetrata, più scontata ma, probabilmente, meglio legata al contesto.
La torre Galfa è un’opera importantissima del patrimonio architettonico novecentesco milanese; non molti se ne sono accorti, probabilmente, per via dello stato di abbandono in cui ha versato per quasi vent’anni. Progettata dall’architetto Melchiorre Bega nel ’56 il grattacielo è riconducibile come stile architettonico all’International Style ed era parte integrante del programmato “Centro Direzionale” della capitale finanziaria italiana, ideato negli anni cinquanta e mai compiutamente realizzato.
Ha la struttura portante in cemento armato, quasi completamente nascosta dalle facciate continue – o curtain wall – in alluminio e vetro, escluse due bande verticali ai lati ed una, più larga, centrale, sul lato posteriore. Il gruppo Unipol-Sai, che ha acquistato l’edificio, ne ha proposto anche un cambio di destinazione da terziario a ricettivo-alberghiero e residenziale è, quindi, plausibile aspettarsi qualche cambiamento nel linguaggio architettonico, oltre alla sostituzione degli originali elementi di facciata; solo con lo spacchettamento finale sarà possibile capire quanto verrà salvato del linguaggio originale della torre e se siamo di fronte ad un intervento di rigenerazione del manufatto anni ’50 o ad una trasformazione in termini berniniani dello stesso, come ad oggi sembrerebbe vista l’aggiunta, visivamente molto impattante, sulla facciata ovest di una rampa di scale di sicurezza che percorrono tutto lo sviluppo della torre.