Fin dalla sua nascita, nel 1948, lo Stato d’Israele ha sempre convissuto con il conflitto. Inizialmente quello contro i paesi arabi che minacciarono di voler “cancellare dalle mappe” Israele e a seguire la guerra dei sei giorni, l’improvvisa invasione egiziana nel giorno del Kippur (espiazione), la prima guerra del Libano del 1982 che come vedremo ha sconvolto molti soldati israeliani, infine l’eterno scontro tra la comunità palestinese e quella israeliana. Questa continua pressione e questo odio così profondo hanno costretto Israele ad un rapido sviluppo economico, tecnologico e militare; l’obiettivo è sempre stato quello di primeggiare in questi campi per assicurare una certa solidità e stabilità al paese. Obiettivo raggiunto grazie agli aiuti dell’Occidente a cui tanto importa la stabilità di un alleato in quest’area del pianeta.
Quella marcia forzata di cui sopra ha coinvolto anche altri settori, come quello della cultura. Il cinema israeliano dall’inizio del XXI secolo si è imposto come uno dei più importanti e influenti protagonisti nel panorama cinematografico mondiale. In seguito al successo di molti film israeliani nei festival più celebri del mondo, la distribuzione italiana si è concentrata sulla distribuzione di queste pellicole che da alcune uscite occasionali ed eccezionali dei primi anni Duemila è arrivata a sfiorare i trenta film distribuiti dal 2005 ad oggi. In questa produzione così varia, che spazia dalla commedia al dramma, dal cinema d’animazione al thriller, si osserva una tendenza che se per i primi anni poteva apparire come lo sforzo eroico di qualche coraggioso regista, con il tempo è diventata una costante di forte interesse. Il cinema israeliano, da qualche anno, sta navigando verso una profonda riconsiderazione del ruolo svolto dal paese in questi settant’anni; scandagliando il passato si trova di fronte a numerose crepe di quell’efficienza israeliana che appare sempre più come un’immagine promozionale che non la realtà. Prendiamo in esame tre dei film che a questa tendenza non solo si rifanno, ma che la pongono come base ideologica su cui sviluppare il film: Il giardino di limoni (2008) di Eran Riklis, Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman e Lebanon (2009) di Samuel Maoz.
Attenzione: sono presenti SPOILER dei film analizzati
Il 2008 è un anno molto particolare per il conflitto arabo-israeliano: la vittoria alle elezioni del 2006 per il rinnovo del consiglio legislativo dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) del partito nazionalista, paramilitare e antisionista Hamas a Gaza porta ad una serie di scontri violenti con il partito socialdemocratico Fatah. Nei due anni successivi, infatti, Israele vede crescere non lontano dai suoi confini le frange estremiste che tanto terrorizzano la popolazione ebraica. Proprio in questo contesto di rinnovata paura si colloca il progetto di Riklis. Il giardino di limoni (The Lemon Tree) racconta di una vedova palestinese, la cui sussistenza dipende dal frutteto di limoni, che si ritrova come nuovo “vicino di casa” il Ministro della Difesa israeliano. Questi, preoccupato che tra gli alberi da frutto possano nascondersi terroristi, inizia una serie di azioni per costringere la vedova a rinunciare al suo frutteto. La donna inizierà così una battaglia legale contro lo stato di Israele per rivendicare il diritto di possedere quell’unico strumento di sussistenza.
A prima vista appare come la storia più vecchia del mondo: il “piccolo” che sfida il “grande”, in questo caso sarebbe meglio dire “gigante”; eppure il film di Riklis riesce a rappresentare tutta la storia del conflitto tra le due comunità in un unico evento. Ripercorrendo velocemente gli eventi di cui si compone il film, risulta infatti chiaro che tutto possa essere visto come una parabola del conflitto: la scelta del Ministro della Difesa di abitare sul confine cisgiordano e a pochi passi da alcune abitazioni e del frutteto palestinesi ricorda molto il 1948, quando Israele viene collocato arbitrariamente in alcuni territori già occupati dai palestinesi; la scelta di abbattere il frutteto della vedova, rimarcando più e più volte il “ridicolo” risarcimento, mostra l’arroganza della politica israeliana con la quale ha condotto e conduce tutt’ora molte azioni nei confronti della comunità araba; le continue paure del Ministro rispecchiano quelle delle comunità ebraiche di confine, spesso coinvolte in attacchi terroristici; infine il finale: la costruzione di quel muro che nasconde quel frutteto, così ostile alla vita agiata del Ministro, altro non è che la metafora della continua indisponibilità alla comprensione reciproca.
Il giardino assume quindi le fattezze di un luogo dell’anima, un luogo ideale e inattaccabile, il luogo del ricordo e delle memorie di una vita trascorsa sempre tra quelle fronde. Un luogo puro insomma, come puro è il proposito di Salma, la vedova, per la quale quel frutteto è la famiglia o ciò che rimane di essa, tanto da arrivare a sostenere in una battuta che “gli alberi dopotutto sono come persone”.
Ma è un luogo che ora dev’essere protetto, salvato dai pregiudizi e dai timori degli uomini, dall’arroganza dello Stato israeliano. L’unica figura a capire Salma è un’altra donna, la moglie Mira del Ministro, che condivide con lei la purezza d’animo e comprende l’ingiustificato pugno duro del marito nei suoi confronti. La battaglia legale viene descritta come una gigantesca farsa, una sorta di Davide contro Golia ma dall’esito inverso. Il processo che inizialmente appare allo spettatore come una semplice formalità nella veste del riconoscimento dei diritti di Salma, si dimostra essere piuttosto un boomerang: la Corte Suprema ribadisce infatti il principio secondo cui la sicurezza dello stato israeliano ha la priorità sui diritti di chicchessia. Una sentenza che a questo punto lo spettatore può riconoscere come un semplice atto di forza, di cui la storia processuale Israeliana risulta piena, e che non viene addolcita dalla decisione dell’abbattimento di una parte e non di tutto il frutteto, decisione che peraltro somiglia più ad una presa in giro nei confronti della vedova. A questo punto appare indicativa la frase pronunciata dall’avvocato Ziad Daud nel finale “Allora signori, il lieto fine c’è soltanto nei film americani…”.
Riklis sembra quasi suggerire che l’unica possibile soluzione del problema sia da ricercare nella sensibilità dell’essere umano, ancor meglio nella sensibilità della donna. Il finale però scarta deciso anche questa soluzione e la costruzione del muro che divide la villa dal limoneto rimanda senza mezzi termini alla costruzione del Muro per eccellenza, quel tracciato che gli israeliani chiamano, lavandosi la coscienza, Barriera di Separazione e che i palestinesi indicano invece come Muro della Vergogna.
“Ci dev’essere un’altra soluzione!” “Tremila anni e nessuno l’ha trovata, che vuoi da me?” “È ora che qualcuno la trovi”
Nel 2009 vengono distribuiti nel nostro paese gli altri due film accennati sopra. Il primo è Valzer con Bashir. Il film di Ari Folman è uno dei film più premiati dell’anno e uno dei più amati dal pubblico di tutto il mondo. Si tratta infatti di un film molto complesso già nella sua forma: appare infatti come un film documentario d’animazione che descrive una seduta psichiatrica e in seguito un processo terapeutico che ricorre allo scavo nei ricordi per mezzo di alcune interviste a vecchi amici e compagni. Lo scopo è permettere al regista di ricostruire il ruolo che intraprese durante il massacro di Sabra e Shatila del 1982.
Già la sinossi del film dovrebbe accendere qualche spia in relazione al discorso che stiamo portando avanti. Folman conosce bene gli errori fatti dal suo paese, in parte li ha visti con i propri occhi: era là infatti il giorno dell’eccidio e il film raccoglie tutte le sue memorie. Folman compie un passo avanti nel definire la sua posizione su come affrontare il problema: ne Il giardino di limoni la tesi finale consisteva nella constatazione del problema e non nell’indicare la via verso la possibile soluzione; Folman invece la fa trapelare in uno dei primi scambi dialogici del film:
“L’unica soluzione è che tu cerchi di scoprire cosa è successo a Sabra e Shatila e, allora, forse, riuscirai a ricostruire qual è stato il tuo ruolo…”
“Ma non è pericoloso? Non corro il rischio di scoprire delle cose di me che non voglio conoscere?”
Con due battute Folman ci dice che la soluzione, da parte israeliana, consisterebbe nell’ammettere il problema e riflettere su di esso, ma allo stesso tempo assicura, perché lui quello scavo l’ha già svolto e il risultato è il film che stiamo guardando, che ciò è molto difficile e pericoloso. L’invito del regista è quindi rivolto a tutta la sua gente ed è un invito a fare uno sforzo collettivo per arrivare alla radice del problema.
La perdita di memoria del regista era dovuta proprio al senso di colpa che lo attanagliava, un senso di colpa che condivide con tutti coloro che erano presenti al campo profughi di Sabra e Shatila. Gli israeliani rimasero a guardare, senza muovere un dito, la strage che si stava compiendo sotto i loro occhi. E quando Folman, grazie alle testimonianze raccolte, scopre il motivo di tale complicità con gli assassini falangisti, lo sconforto aumenta: in seguito all’uccisione di Bashir, leader dei falangisti cristiani, da parte dei servizi segreti siriani con l’aiuto dei palestinesi, i falangisti si vendicarono uccidendo gli uomini del campo profughi di Sabra e Shatila con il beneplacito dell’esercito Israeliano. Un semplice e ingiustificato atto di vendetta.
L’importanza di questo film viene chiarita inoltre da un altro aspetto: quando si riportano alcuni degli episodi più “neri” della Storia di Israele si è spesso tacciati di antisemitismo, ma qui è Ari Folman a sottolinearlo, un israeliano nato a Haifa nel 1962 e figlio di genitori polacchi sopravvissuti ad Auschwitz. Folman dichiara che quel giorno Israele ha costretto molti dei suoi giovani soldati a prendere parte di un eccidio le cui fattezze e dinamiche risiedevano spezzettate in ognuno di loro; nessuno aveva chiaro l’intero eccidio, ma ognuno di loro covava inconsciamente il sospetto del dramma. Si è cercato, in sostanza, di nascondere un eccidio spezzettando le informazioni nelle menti di ognuno di quei soldati evitando ad ogni costo che qualcuno potesse averne abbastanza per chiudere il quadro.
La vera domanda che il regista si pone è proprio questa: c’è così tanta differenza tra l’assistere ad un massacro rimanendo inerti e il prenderne parte in maniera attiva?
“La ragione per cui non ricordi nulla del passato è che dal tuo punto di vista i militari che formavano i tre cerchi [gli israeliani che osservavano il massacro, tra cui anche Folman] e gli autori dell’eccidio [i falangisti cristiani] sono la stessa cosa e quindi si è fatto strada il senso di colpa per aver sostenuto il ruolo del nazista”
Con Lebanon invece Samuel Maoz mostra come Israele non sia solo Mossad ed efficienza militare. Ambientato anche questo nel 1982, il film racconta dei primi giorni della prima guerra libanese, la spedizione di centinaia di ragazzi, per lo più appena maggiorenni, in prima linea. Ragazzi che vengono rinchiusi in cingolati umidi e bui in compagnia di altri ragazzi che niente hanno in comune se non la paura. Nessuno comprende le ragioni della sua presenza lì, qual è il suo scopo e se avrà davvero la forza di uccidere un essere umano.
“Oggi è il mio primo giorno di guerra, sono nella pancia di un carro armato con tre persone che non conosco, mi chiamo Asi mi ritrovo in un mondo e non so proprio come ci sono finito e da cui non so come uscire…”
Così Maoz descrive la vita nel cingolato: quattro compagni in uno spazio ristretto, uno di questi ha l’infausto ruolo di puntatore, ovvero colui che non solo vede l’obiettivo e decide di sparare, ma che è costretto a vedere le conseguenze del colpo, i morti e la devastazione e tutto questo in primo piano. Così le forze e il coraggio abbandonano in fretta quei giovani che dalla vita semplice d’adolescenti si ritrovano catapultati in una realtà di guerra.
Come in un’opera teatrale, poi, dal portello del carrarmato entrano vari personaggi che interagiscono per poche battute con loro: un falangista, un ufficiale, un prigioniero e un cadavere. Maoz interpreta così il contatto tra il mondo esterno, visto da un cannocchiale (puntatore), e la realtà chiusa di quel carro armato, quella corazza che appare invincibile, ma che in realtà appare come una spugna capace di assorbire le dinamiche esterne.
Così come aveva fatto Folman, Maoz riporta alla luce i traumi di una generazione, l’incubo mai sopito di una coscienza di massa. È l’accusa al proprio paese di aver rovinato migliaia di ragazzi, di aver impedito loro di crescere, di non essere poi così efficiente. I colpevoli sono gli alti gradi dell’esercito, coloro che hanno mostrato ad una generazione la guerra come un gioco rendendoli impreparati all’orrore vero.
Maoz, che a vent’anni fu in uno dei primi carri armati che invasero il Libano, ha provato sulla propria pelle tutto questo; ha scoperto che ancor più forte del ferro del carro armato è l’animo dell’uomo quando reagisce alla paura e all’insicurezza.
“Il carro armato è fatto di ferro, l’uomo d’acciaio.”
Da questi tre visioni, da questa Storia più responsabile si avverte il dolore di aver taciuto qualcosa che a tutti era noto, di essersi lavati la coscienza e di aver chiuso gli occhi, in alcuni casi ancora oggi, di fronte ai problemi. Il cinema li ha liberati da questo peso. In un paese che taccia di antisemitismo chi critica eventi o periodi della sua Storia, tre registi, che il proprio paese conoscono molto bene, affollano il confessionale e ripescando nei propri ricordi sussurrano “mea culpa”.