L’arte è arte.
Tra le poche sicurezze a cui possiamo attaccarci resta in vita questa semplice definizione.
L’arte è da sempre il mezzo con cui si è cercati di superare la discriminazione, a torto o ragione i messaggi filtrati sono riusciti a perdurare nel tempo grazie alla potenza evocativa che l’artista era in grado di sprigionare con le sue opere.
Oggi, in procinto di festeggiare le donne di tutto il mondo, è sulla parola artista che mi voglio soffermare.
Non esiste un maschile e un femminile, la parola italiana artista è invariabile per genere, e ciò presuppone che non ci sia bisogno di declinarla.
Si dice che siamo fatti dalle parole che usiamo, ma nella realtà quanto è vera quest’invariabilità di genere?
Il tema è un ginepraio di quelli spinosi che non si possono affrontare con un articoletto dell’8 marzo, gli eventi degli ultimi mesi li conoscete tutti, a me pero’ interessa fare una panoramica quanto più varia in queste poche righe.
Partiamo da uno dei palcoscenici più famosi del mondo, quello degli Oscar.
Come ogni edizione tra i premi più attesi c’era quello della miglior attrice protagonista, quest’anno particolarmente fortunato perché oltre ad essere finito nelle mani della più meritevole ci ha evitato il solito discorsetto preconfezionato.
Frances McDormand, che molti come me hanno scoperto ai tempi di Fargo, ha regalato un paio di minuti di vivacità ad una cerimonia piuttosto piatta, oltre che una grande interpretazione in Tre manifesti a Ebbing, Missouri.
Facciamo un po’ d’ordine introducendo per prima cosa queste sconosciute due parole: “inclusion rider”.
L’inclusion rider è una clausola, che permette agli attori favorevoli all’inclusione nei termini contrattuali di questa, di garantire la presenza all’interno della troupe di un cinquanta percento di rappresentanti delle categorie di “minoranza”.
Corrispondono a queste le donne, i disabili o i portatori di handicap, gruppi etnici poco rappresentati, gli omosessuali.
Fu introdotta come “paraculata” dopo le tante critiche mosse nell’edizione dei White Oscar, quando l’Accademy fu accusata di aver usato un po’ troppo sbianchetto nella scelta dei nominati.
Se certamente fa piacere vedere un’attrice affermata incentivare la lotta alla discriminazione e ricordare come molti personaggi influenti abbiano la possibilità di farsi garanti di queste, evidenzia come le categorie di minoranza si trovino costantemente in balia di qualche tutore/benefattore.
Di questi tempi non è nuovo trovare attori o celebrità vestire i panni dei paladini, la McDormand non è certo la prima, ma è stata capace di mettere in evidenza un tema sconosciuto ai non addetti ai lavori (sarei curioso di conoscere il numero delle ricerche su google in quelle poche ore) e, dettaglio non da poco, a differenza di altri risultare credibile.
Torniamo ora alla prima parte del suo discorso, quando invita le donne nominate ad alzarsi in piedi.
Tra queste mi concederete di puntare i riflettori su Rachel Morrison, la prima direttrice della fotografia ad essere nominata agli Oscar.
Ho letto alcune malelingue far leva sugli scandali che hanno scandagliato i mesi autunnali del 2017 per motivare la presenza di una donna nella virilissima categoria “fotografia”.
Quasi come tentativo dell’Accademy di prendere le distanze dalla Hollywood misogina dipinta dai giornali nell’ultimo anno, o di un improvido risarcimento verso l’universo femminile.
Io non sono un politico e nemmeno un giurato, mi limiterò semplicemente a postare questo frame del film Mudbound per convincervi che la Morrison quella nomination se l’è presa per un solo motivo: è brava.
“il segreto è arrivare a un punto in cui siamo solo considerati direttori della fotografia, non direttori della fotografia donne.
Non bisognerebbe più pensare al genere, come accade per l’insegnante o il dottore.”
Questo è un tema che affronto molto volentieri, perché anche io nel mio essere un regista del sabato sera e videomaker da soffitta ho sempre scelto di collaborare con una d.o.p. ragazza.
Una donna, lesbica che sebbene fosse quindi una perfetta esponente degli Inclusion Rider mi sono limitato a scegliere esclusivamente perché brava.
La vecchia cara meritocrazia, senza clausole o hashtag, così fuorimoda da non venire nemmeno più citata.
Certo, il discorso iniziale di Jimmy Kimmel (che mi ha lasciato senza parole e non in accezione positiva), la presenza e vincita di tantissimi film a tema minoritario hanno spinto molti a considerare questi Oscar una sorta di rivincita degli emarginati un po’ costruita.
L’ennesima sbrilluccicante vetrina d’ipocrisia tipicamente made in USA.
In Italia però quella sera non c’erano tappeti rossi, le patinate atmosfere del Dolby Theatre si perdevano nei più vissuti studi di La7 dove l’unico eroe di serata Chicco Mentana ci guidava nello spoglio elettorale.
Spoglio che ci ha regalato un risultato chiaramente indirizzato verso una politica di chiusura.
Sul democratico voto di una nazione non si deve mai discutere, ma ho rivalutato la necessità del raccontare ancora film come La forma dell’acqua, Chiamami col tuo nome, e tutte quelle belle storie che forse ci piace più guardare da uno schermo piuttosto che fuori dalla nostra finestra.
O almeno alla maggioranza.
Passando dal cinema all’arte possiamo finalmente trovare dati tutti nostrani su quanto l’essere artista con la gonna o meno possa fare la differenza per trovare uno spazio, una vetrina, un mercato.
La Nuova Accademia di Belle Arti di Milano (la Naba), ha infatti seguito uno studio da cui sono emersi dati interessanti.
Le studentesse di belle arti in Italia, corrispondono al 66,7% degli studenti, una decisa maggioranza con cui si potrebbe persino governare con questa legge elettorale.
Analizzando le programmazioni delle principali gallerie commerciali di arte moderna e contemporanea, i luoghi nevralgici in cui si radunano esperti e collezionisti per acquistare opere, le artiste donne sono solo il 18% degli artisti esposti.
Percentuale simile, 19%, se si analizza le mostre dedicate ad artiste contemporanee da parte di musei, sia pubblici che privati.
Un dato meno negativo riguarda le gallerie che si occupano esclusivamente di arte contemporanea, dove un’artista donna su quattro riesce ad ottenere un’esposizione.
Sono dati che ci sbattono in faccia una realtà che non suonerà nuova a chi questo percorso l’ha intrapreso, ma fanno riflettere su una disparità di condizione che nella statistica sembra trovare più di qualche perplessità.
Ecco perché ci sono collettivi artistici come le Guerrila Girls che provano a sollevare dibattiti sul sessismo nel mondo dell’arte a colpi di slogan ed iniziative che potete scoprire visitandone il sito.
Concludendo, perché non vorrei farvi passare la vigilia e l’intero 8 marzo dietro questo articolo, è evidente che la parola artista nella pratica penda ancora verso un’accezione maschile nonostante la sua invariabilità grammaticale.
In un mondo che sembra trovare soluzioni solo tramite slogan, hashtag o clausole a margine di un contratto mi fa sempre piacere ricordare le parole di un grande regista femminista come Hayao Miyazaki
“Molti dei miei film hanno come protagonista un personaggio femminile coraggioso e autosufficiente, ragazze che non ci pensano due volte a combattere con tutto il cuore per ciò in cui credono.
Loro hanno bisogno di un amico o qualcuno che li sostenga, ma mai di un salvatore.
Ogni donna è capace di diventare un eroe tanto quanto un uomo”.
Forse per combattere la discriminazione non servono più eroi e salvatori, ma solo le possibilità e il sostegno che ognuno di noi merita.