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Ciao Lisa, è un gran piacere avere la possibilità di scambiare 4 chiacchiere con te, e con l’occasione farti qualche domanda sul tuo nuovo progetto fotografico.
Ma partiamo dall’inizio:

Cosa rappresenta per te la fotografia?

La fotografia per me è ossessione. Non c’è giornata in cui essa non occupi buona parte del mio tempo: quando sono a casa leggo libri e articoli su di essa, analizzo il lavoro di fotografi e penso ai miei progetti, quando sono fuori vado alle mostre e nelle librerie, parlo con altri di fotografia, ma anche banalmente osservo la realtà che mi circonda con occhio fotografico. Reputo la fotografia un continuo esercizio in quanto non ha un punto di arrivo fermo, è come un orizzonte che sempre si allontana ma che non smette di ricordarci dell’esistenza di una meta. Infine, posso dire che è senza dubbio ciò che piu’ influenza il mio modo di vedere e percepire il mondo.

 

Com’è nata questa tua passione?

E’ una domanda difficile da rispondere, credo istintivamente. Il mio desiderio di acquistare una macchina fotografica è sorto circa alle scuole medie, senza però ricevere il consenso dei miei genitori. Nonostante fossi cosciente che non sarebbe stato il mezzo a rendermi “fotografa”, ero ferma nella mia idea di dover acquistare una buona macchina per poter iniziare. Col senno di poi, reputo che questo periodo, concluso il giorno in cui sono riuscita a mettere da parte sufficiente denaro per comprarne una sia stato fondamentale perché mi ha costretto a dover scattare per anni solo con gli occhi.

 

Vivi stabilmente a Milano da un po’ di tempo, ma sei nata e cresciuta in un piccolo comune piemontese situato sul Ticino. Quanta influenza hanno, o hanno avuto, i tuoi luoghi di origine nella tua narrazione? 

Senza dubbio molta. Il fatto di esser cresciuta in un piccolo paese mi ha permesso di affacciarmi alla città e piu’ in generale alla realtà con un perenne stupore, approccio che reputo fondamentale per chiunque scatti. Mi ha permesso di non dar nulla per scontato e vedere la realtà sempre con occhi nuovi, tant’è che posso rimanere colpita da un pezzo di carta per terra in maniera identica alla facciata di una splendida casa. E’ anche per questo che sto iniziando un progetto che ha proprio l’intento di parlare del mio paese, quasi come per ringraziarlo.

 

Il tuo percorso di studi, una laurea in psicologia, quanto pensi possa influenzare il tuo approccio alla fotografia?

Anche in questo caso parecchio, ma non nel modo in cui è più spontaneo pensare. Sicuramente il mio percorso è stato importante per la costruzione di un bagaglio personale, ma soprattutto perché la psicologia, per quanto si possa pensare il contrario, è un’area di studio prettamente scientifica. In questo senso, mi ha permesso di riversare questo approccio nella mia ricerca fotografica oltre che ad acquisire un metodo.

 

Il tuo ultimo progetto fotografico “Status who” nasce tra marzo e maggio del 2020, periodo in cui ognuno si è trovato a osservare le cose da una nuova prospettiva, arrivando anche a stravolgere il proprio processo creativo.
Com’è nato questo lavoro?

Il lavoro nasce come un progetto scolastico sul tema dell’isolamento. La mia idea è stata molto semplice: rappresentare pensieri e sensazioni che durante l’isolamento forzato hanno acquisito una maggior forza su di me. Mi preme sottolineare il fatto che la mia intenzione non fosse quella di parlare nello specifico della quarantena, né di percezioni che sono sorte ex novo per sua causa. Credo che per me, come per ognuno di noi, questo periodo abbia semplicemente amplificato paure, debolezze e pensieri già esistenti prima del lockdown ma che durante esso hanno avuto modo di acquisire un maggior spazio.

 

Potremmo definire “Status who” un progetto di still life?

Sinceramente non lo definirei così. La fotografia è forse l’arte con la maggior capacità di ingannare lo spettatore. Essa è realistica, non è reale. Quello che si raffigura scattando non è la realtà, bensì una frazione di essa. Il fotografo ha la facoltà di scegliere cosa mostrarmi e come mostrarmelo. In linea con questo reputo fondamentale in fotografia la distinzione tra forma e contenuto.

Il primo esempio che mi viene in mente sono le fotografie di Wolfgang Tillmans raffiguranti i pasti consumati dal suo compagno in ospedale prima di morire di AIDS. Sono fotografie di food? Nessuno direbbe di sì. Allo stesso modo nel mio lavoro gli oggetti rappresentano la forma, ma non il contenuto. Essendo queste due componenti tra loro indipendenti, avrei potuto raccontare gli stessi concetti utilizzando qualsiasi forma: gli interni, i ritratti e via discorrendo.

 

Osservando altri tuoi lavori, più o meno recenti, si nota una continua evoluzione nella tua narrativa. Il ritratto, lo still life, la fotografia d’architettura, sono anime che coesistono, o rappresentano un processo di crescita e continua sperimentazione?

Direi entrambe le cose. E’ come se il mio percorso fotografico sia caratterizzato dalla sperimentazione sequenziale di elementi che vanno sommandosi: le mie prime fotografie erano estremamente essenziali, quasi come a imparare a padroneggiare l’elemento della linea, per poi passare all’architettura (vista in questo senso come una coesistenza di linee) e poi arrivare a qualcosa di approssimabile allo still life. In questo senso possiamo sì parlare di un percorso di crescita.

Al tempo stesso queste anime coesistono. Banalmente, passando da una fase all’altra della vita il bagaglio personale non si fa sempre diverso, bensì sempre più’ ampio di competenze e conoscenze senza abbandonare quelle acquisite in precedenza. Il fatto che coesistano è anche in linea col discorso forma/contenuto affrontato in precedenza: tutti gli elementi rappresentati sono forme diverse di uno stesso contenuto che consiste nella mia ricerca personale.

 

Quali sono i fotografi che maggiormente hanno influenzato i tuoi scatti? E quali sono i libri di fotografia che un appassionato deve assolutamente avere nella propria libreria?

Traggo ispirazione da fotografi molto diversi tra di loro, talvolta in antitesi, perché mi interessa capire in quanti modi sia possibile esprimere uno stesso concetto e al tempo stesso conoscere quale forma e visione ogni singolo fotografo scelga per comunicarlo.

Nel mio cuore però devo dire che ci sono i coniugi Becher, i fotografi della Scuola di Düsseldorf e i pionieri americani del colore come Stephen Shore e William Eggleston.

Per quanto riguarda i libri da avere nella libreria a tutti i costi direi i classiconi come “Camera chiara” di Roland Barth, “Fotografia e inconscio tecnologico” di Franco Vaccari e “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin.

 

Che tipo di consiglieresti ti sentiresti di dare a chi decidesse di intraprendere la strada della fotografia?

E’ banale ma di essere affamati di fotografia. Di leggere piu’ libri possibili, di guardare tantissima fotografia sia online che cartacea, di andare alle mostre: insomma di rendere la fotografia la propria quotidianità.

Reputo fondamentale essere continuamente alla ricerca di nuovi stimoli, indipendentemente che siano fotografici o no. Come diceva Ansel Adams “Tu non fai una fotografia solo con la macchina fotografica. Tu metti nella fotografia tutte le immagini che hai visto, i libri che hai letto, la musica che hai ascoltato e le persone che hai amato”. Credo che il segreto di una buona fotografia sia semplicemente questo, non reputo sia questione di talento ma di impegno e dedizione.

 

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Lisa Gallo

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